In cerca di storie
Una possibilità: sono stata accolta da Murmuris in un percorso che vuol rafforzare il ruolo assunto dallo spettatore nella programmazione di Materia Prima. Le cose avvengono talvolta per caso e, grazie a un algoritmo che mi ha mostrato l’invito, mi sono resa disponibile a far parte di un progetto d’analisi del festival. È così che, attraverso lo scambio di pareri all’interno del gruppo, ho avuto l’opportunità di leggere con accresciuta consapevolezza l’evento nella complessità del suo contesto.
L’io spettatore ha allenato l’osservazione, a partire dalle mie aspettative.
La voglia di ascoltare storie mi porta infatti spesso a scegliere, attraverso un atto di fiducia, testi e narratori che mi risuonino; in questo caso invece mi sono affidata a una programmazione stabilita da altri e, uscendo dalla mia confort zone, ho esplorato un cartellone fatto di opere, drammaturgie e visioni definite “contemporanee”, prodotte soprattutto da artisti giovani, portatori di istanze per me nuove, che m’hanno procurato un’alternanza di sentimenti.
Motus, per cominciare
Il mio esercizio ha avuto inizio col Frankenstein di Motus. Nuova allo spazio del Cantiere Florida, ho preso contatto innanzitutto con un foyer spartano per orpelli ed arredi ma effervescente per la comunità variegata che lo abita. Si respiravano curiosità e relazioni d’affetto, figlie d’un evento ricorrente e atteso. Poi, finalmente, la sala e un palco in penombra e scene minimali, tra un raggio di luce ocra e un palpito soffuso (tum tum, tum) dal ritmo crescente, in grado d’avvolgermi e che m’è parso una richiesta d’attenzione. La rappresentazione ha inizio. Dettagli. Gli ambienti resi con teli leggeri di plastica trasparente, sospesi e sul palco; pezzi di ghiaccio nelle mani e sui corpi degli interpreti, dal biancore artico; testi proiettati, fasci di luce, musiche. E performer androgini che, riadattando il romanzo di Mery Shelley, mi parlano di trasformazione, frammentazione e di corpi che diventano veicolo del dolore narrato: ora nudi didascalici, ora muovendosi nello spazio, persuasi e innamorati dei personaggi. Io pur stando seduta li ho inseguiti, sono inciampata nell’attenzione e sono rotolata lungo i pendii dei dettagli che non conosco.
Vorrei rivederlo ancora.
Orfana di senso, infatti, mi sono affidata al turbamento che mi solleticava domande, in attesa di comprendere ciò a cui davvero avevo preso parte.
Ripensare se stessi, fino a vedere l’altro
Un panchetto e un microfono preannunciano: ci sarà in scena un solo attore. È un interprete che, a più voci e grazie a un sintetizzatore vocale, propone un testo in endecasillabi. È Batracomiomachia, da Giacomo Leopardi, con Andrea Macaluso: poemetto un tempo, ora sublime esercizio di memoria che attraverso la recitazione tiene in ilare concentrazione la platea. La scelta dell’opera, parodia delle grandi narrazioni epico-militari antiche, sa essere attuale attraverso una performance solo in apparenza minimale ma che ha sapienti concessioni tecnologiche e che concede ai presenti la possibilità di ridere attraverso l’identificazione di sé nelle figure evocate. È, rifletto, l’esercizio sano del ripensare se stessi. E di Sid invece cosa scrivere? Stavolta parto dall’impegno d’esserci. Mi sembra che il tempo dedicato allo spettacolo inizi nel momento stesso in cui esco di casa e prendo un mezzo pubblico: volutamente de-connessa, attenta a chi mi circonda, in cerca d’incrociare sguardi. Arrivo e trovo le porte del Florida già aperte, lo sono da parecchio tempo scopro. In foyer. Ci s’intrattiene, ci s’attarda, si scambiano pareri. La porta oscilla e m’introduce in un gruppo di persone che riconosco perché mi hanno sorriso, sono attrici e attori e registi del territorio. Salutarsi, ritirare il biglietto al botteghino, raggiungere il posto assegnato sfiorando i corpi compressi tra le fila delle poltrone. Sedersi, guardare il pubblico e cercare con gli occhi segni anticipatori in assito. Sono tutti elementi, questi, che mi sembrano facciano parte di ciò che a tutti gli effetti è o diventerà una ritualità. Noto il palco senza sipario, l’assetto frontale e l’assenza probabile di scene: mi sembrano costanti della programmazione. I protagonisti scelgono il corpo come portatore di messaggi e tensioni – altra costante. Avviene anche con Sid, che è un monologo sincopato, reso da un fisico che danza interagendo con due musicisti in uno spazio delimitato da fasci di luce. L’attore (Alberto Boubacar Malanchino) è giovane, è forte delle sue origini straniere, ed è un ponte tra due culture e ricerca un ruolo o un modo per essere visto veramente. Incarna il tema dell’identità, in maniera provocatoria. Vorticoso e incalzante è il suo ritmo, per me non sempre è semplice star dietro al filo dei suoi pensieri, che si susseguono.
Questo profumo di zagare
Si può parlare di identità anche poeticamente. Capita con Il grande vuoto di Fabiana Iacozzilli. Che allestisce una scenografia realistica (dall’auto in proscenio al salotto, il tavolo, le sedie e gli oggetti conservati per anni dentro ai mobili). Attraverso la relazione tra gli interpreti scorre una storia che si fa seguire. S’affronta il tema della perdita di memoria (personale e familiare), che i figli di una madre colta da alzheimer affrontano con sgomento, rabbia, dolore, inconsapevolezza, negazione o accettazione. Osservo lo spettacolo e accolgo in me flash back di sensazioni già vissute sia attraverso l’ascolto che l’olfatto. Mi ritrovo per un attimo tra le stereotipie di mia nonna, di cui risento perfino il profumo. La sensazione è intensa, mi disorienta. Mi trovo a meravigliarmi della potenza evocatrice del teatro e mi accorgo poi che la mia vicina indossa la fragranza di zagara, a me familiare.
Il grande vuoto è un lavoro capace di suscitare processi di identificazione profondi. Lo comprendo uscendo, già sulle scale, ascoltando i commenti e notando l’urgenza che le spettatrici e gli spettatori hanno di raccontarsi esperienze simili. Così, defluendo con lentezza, il pubblico mette in atto quella circolarità per cui il teatro nutre la realtà che, a sua volta, tornerà a nutrire il teatro.
Tra la pioggia e la città, provando commozione
È il primo giorno di primavera. Piove, il traffico cittadino fatica a scorrere, i mezzi pubblici ritardano e deciso perciò di incamminarmi ma le scarpe che indosso (hanno il tacco) si rivelano inopportune. Arrivo stanca, l’indolenzimento ai piedi e alle ginocchia m’indispone. In aggiunta: sono seduta scomodamente, tra due spettatori che esondano, in una poltrona decentrata. Lo penso, me lo dico: vorrei essere altrove. A tirami dentro invece, a tenermi qui, sono i performer di Forse una città (Ada Collettivo). Mi calamitano subito, assorti a giocare con le tessere del domino, intenti a impilare strutture instabili a guisa di palazzi destinati al crollo. Si muovono ipnotici, in un’evocazione cittadina che, per frammenti d’immagini, porta a Firenze. Sei “cittadini” in rappresentanza di una società, composta com’è composta una collana dalle singole perle per cui ognuna contribuisce alla costruzione collettiva. Si raccontano dunque: a turno, tra passi di danza e filmati. Il loro narrato mi pare a tratti concettuale e criptico, tant’è che mi fugge precocemente dalla memoria, e tuttavia sul piano estetico i sei sono d’impatto: abiti fluo, accessori vintage, vecchi oggetti dimenticati (le bolle da imballaggio, ad esempio, o certi dinosauri luminosi). Sono, queste cose, che infine mi distolgono dalla mia insofferenza iniziale. Finirò, terminato lo spettacolo, per uscirne senza più alcun dolore.
E poi c’è la morte. Tema ingombrante. Se ne fa carico De los muertos di Zimmerfrei, che va in scena all’Archivio di Stato: un’isola tra due viali, invisibile anche se imponente, offuscata dall’incedere del traffico circostante e dalla frenesia della vita che impedisce di fermarsi: è un prezioso scrigno di documenti, di carte, di testamenti, defunti e fermi anch’essi, loro malgrado. De los muertos restituisce voce alla memoria dei defunti attraverso la narrazione dei loro lasciti. Veniamo introdotti – attraverso un itinerario preciso – in un allestimento di oggetti e didascalie mentre nell’auditorium assistiamo a quattro quadri per voce e luce: sono storie che dicono la soglia tra aldiquà e aldilà, o come un evento abbia condizionato tutta un’esistenza. La narrazione dunque. E letture autobiografiche non attoriali, voci amplificate, piccoli effetti scenici (rumori, aperture e chiusure di porte), immagini proiettate in loop. La regia è suggestiva mentre la risonanza in noi dell’esperienza è legata direttamente al vissuto personale. Io, che per lavoro persone in lutto ne incontro molte, ho provato commozione, memore di quanto sia complicato riconciliarsi con la perdita.
Fino a ritrovarsi
Le case del malcontento di Murmuris, dal romanzo omonimo di Sacha Naspini (E/O, 2018). La trama emerge dalla cronaca alternata compiuta dalle figure mentre gli altri, statici, sono collocati in un ambiente che evoca la via di un paese scarsamente illuminato (tre lampioni) che fa da scena fissa. Cinque attori che rendono riconoscibili i personaggi (caratterizzazione emotiva, dettagli esteriori: un impermeabile, un cappellino, la lente, un paio di stivali). Gamma cromatica noir, visione priva d’orpelli ma capace di risvegliare e rendere tutte le sfumature di una tavolozza emotiva: la meschinità, ad esempio, e l’invidia o il disprezzo che contraddistinguono una discesa compiuta nelle relazioni malate che caratterizzano una comunità chiusa. In cui ognuno si fa vanto delle proprie colpe e dei propri segreti. La messinscena (il cui senso giunge poi forte, assurdo, chiaro) trattiene me e parte del pubblico in foyer, dove restiamo, tra i libri dell’autrice, compiendo un rito di esorcizzazione – attraverso le morbosità altrui – dei difetti nostri.
Con Solo quando lavoro sono felice, si cambia prospettiva. Completamente. Due attori che riducono ogni distanza rispetto alla platea giocando col tema del lavoro/non lavoro. Li ascolti e viene facile compartecipare, anche grazie al taglio ironico che suscita ilarità per tormentoni e paradossi coinvolgenti. Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa assomigliano a tanti, a tante. Si ride insieme, di e con, ci fanno sentire parte di una comunità informale tant’è che ci si trova a parlare e commentare tra sconosciuti, sena più alcuna circospezione. Io, per esempio, racconto aneddoti personali alla signora che siede nella poltrona davanti a me. È lei, la donna dal profumo di zagara, che mi aveva fatto viaggiare nei ricordi.
Ci siamo trovate infine, di nuovo.